A B C D E F G H I L M N O P Q R S T U V Z
Ferrari Didimo “Eros” (1912 – 1959)
Grande figura di comunista e partigiano, Didimo Ferrari nel corso della sua tormentata storia, soprattutto dopo la morte, fu oggetto delle peggiori calunnie e delle più volgari offese, volte non solo a gettar fango alla sua memoria, ma soprattutto a screditarne il ruolo che ebbe durante la Resistenza proprio perché comunista.
Nato a Metz in Francia il 12 maggio 1912, dove i genitori cercarono di sfuggire alla paurosa miseria dell’epoca, Didimo Ferrari trascorse successivamente la fanciullezza in quel di Campegine, divenendo bracciante ormai adolescente. Fame, miseria, costrinsero il piccolo Didimo a temprarsi nel carattere assai prematuramente, tuttavia formando in lui una coscienza di avversione al regime fascista e a tutte quelle ingiustizie cui furono sottoposte tante famiglie come la sua, costrette ad una esistenza veramente assai poco dignitosa.
Già nel 1931 entrò in contatto con una prima cellula comunista clandestina, diffondendo la stampa antifascista nella bassa ovest e per questa sua attività, non ancora ventenne, subì il primo arresto il 5 maggio 1932, facendo una prima visita al Tribunale speciale.
Confinato a Ponza per 5 anni, subì anche 10 mesi di reclusione per aver partecipato ad una protesta collettiva dei confinati. Chiamato al servizio militare dal ’35 al ’36, avrebbe finito di scontare la pena a Ponza il 10 novembre ’39, ma per il suo comportamento di irruducibile comunista che “non dà segni di ravvedimento”, rimase confinato fino a metà agosto 1943, ovvero in seguito alla caduta del fascismo.
Tornò così libero quando aveva 31 anni, dopo 10 anni, gli anni più belli della giovinezza, trascorsi tra carcere e confino. Quelli però furono anni non di “cattiva condotta”, come il regime intendeva far credere, ma di tenace formazione politica, leggendo e studiando.
Tornato a Campegine nell’agosto del ’43, la preparazione culturale maturata in carcere, unita alla congenita predisposizione al comando, fecero di Eros un dirigente di primo piano del Pci nella bassa ovest.
Nel gennaio del 1944, catturato dai fascisti, “Eros” (questo il suo nome di battaglia) fu rinchiuso nelle carceri dei Servi. Ma ci restò poco. Riuscito fortunosamente ad evadere, il mese dopo ebbe dal CLN l’ordine di raggiungere le prime formazioni partigiane reggiano modenesi nella zona di Villa Minozzo, divenendo in seguito Commissario generale delle formazioni partigiane operanti sull’appennino reggiano.
Protagonista della battaglia a Cerrè Sologno del 15 marzo 1944, dove guidò vittoriosamente i partigiani reggiani e modenesi nello scontro con i reparti tedeschi e fascisti, dopo aver assunto il comando in seguito alle ferite riportate dai comandanti Cocconi e Barbolini, comportamento che gli valse il conferimento della Medaglia d’Argento.
Con la motivazione ….“Commissario di guerra delle formazioni partigiane reggiane, istruì, animò e condusse più volte vittoriosamente all’attacco gli intrepidi Volontari della Libertà. Inseguito ad una puntata offensiva del nemico partecipò volontariamente al contrattacco come un semplice gregario. Rimasti feriti il comandante ed il vice comandante della formazione, in un momento particolarmente critico per le formazioni partigiane, assunse il comando del reparto ed audacemente si lancò nella battaglia trascinando con l’esempio e con la parola i suoi compagni che, snidando casa per casa il nemico più volte superiore, aggiunsero nuova gloria alle formazioni garibaldine”….. le venne conferita la medaglia d’argento al valor militare.
Passò successivamente nella zona di Ramiseto organizzando altre formazioni partigiane, distinguendosi nelle operazioni militari durante la conquista del presidio di Ligonchio e nella battaglia dello Sparavalle.
“Eros” si occupò anche dell’organizzazione della vita civile nella zona liberata, che prese il nome di “Repubblica di Montefiorino”, promuovendo l’opera di democratizzazione delle Amministrazioni comunali.
Curò inoltre la compilazione de Il Garibaldino e del Partigiano, fogli diffusi tra le formazioni partigiane della montagna reggiana.
Dopo la Liberazione fu il primo segretario dell’Anpi a Reggio Emilia.
Colpito da mandato di cattura nel 1950 con la falsa accusa di essere il mandante nell’omicidio dell’ing. Vischi, fu costretto alla latitanza fino all’amnistia, quando potè rientrare a Reggio 5 anni dopo. Morì prematuramente il 7 ottobre 1959 a soli 47 anni.
Ferrari Ferruccio “Flavio”
Nel 1942 la famiglia Ferrari da Marmirolo, si trasferì al Villaggio “Alessandro Mussolini”, l’attuale Villaggio Foscato e con l’8 settembre 1943, Ferruccio che si trovava a Firenze come soldato di leva, riuscì a sfuggire all’arresto da parte dei tedeschi, per fare ritorno da uno zio a San Faustino di Rubiera, dove rimase in latitanza per tutto l’inverno a cavallo tra il ’43 ed il ’44. Grazie alla giovanissima sorella Liliana, già attiva nell’organizzazione antifascista del Partito Comunista Italiano, Ferruccio entrò in contatto con la Resistenza ed a partire dalla primavera del 1944 divenne l’animatore di un primo gruppo di giovani partigiani del Villaggio Mussolini, della Roncina e del Lungo Crostolo, insieme ai quali parteciperà ad alcune azioni di interruzione delle linee telefoniche. Del gruppo di Ferruccio Ferrari facevano parte i fratelli Tullio, Benito, Arturo ed Enrico Foscato residenti anch’essi al Villaggio, nonchè Dante Calzolari, ex operaio delle Reggiane, sfollato in seguito ai bombardamenti della fabbrica, unitosi a quella che diventerà in seguito una squadra SAP, tramite il suggerimento di Risveglio Pataccini, ex confinato politico e fratello di Fausto “Sintoni”, volontario antifranchista in Spagna con le Brigate Internazionali.
I fratelli Pataccini abitavano all’epoca nello stesso caseggiato della famiglia Ferrari ed ebbero un ruolo fondamentale e di grande influenza, nell’organizzazione antifascista in tutto il Villaggio Mussolini. In particolare la casa dei Ferrari divenne punto di ritrovo per la Resistenza ed anche casa di latitanza; quelli furono mesi di infaticabile impegno per Ferruccio ed i suoi compagni, compiendo sabotaggi, azioni armate, recupero di materiali e collegamenti tra la pianura e la montagna. Il 24 febbraio 1945, verso le 4 del mattino, decine di brigatisti neri con al comando il maggiore Tesei, circondarono il Villaggio, facendo radunare tutti gli uomini nelle scuole, mentre una spia coperta da cappuccio per non svelarne l’identità, indicava i partigiani e quanti avevano collaborato con la Resistenza.
Tesei minacciò persino di distruggere le case del Villaggio, se i responsabili del ritrovamento di alcune armi in un campo vicino non si fossero costituiti, così Ferruccio si accollò ogni responsabilità, dichiarandosi fino all’ultimo unico responsabile.
Dieci di loro vennero condotti ai Servi e sottoposti a torture per avere le informazioni sul movimento partigiano, Ferrari mantenne il silenzio, escludendo fermamente ogni coinvolgimento degli altri arrestati. Col suo sacrificio e con la sua forza d’animo, con il corpo martoriato dalle torture e senza fare alcun nome, Ferruccio aveva cercato di salvare tutti i compagni con lui arrestati ed a parte Erio Benassi, tutti ebbero salva la vita. “Flavio” venne prelevato dal carcere all’alba del 28 febbraio ’45, quattro giorni dopo la sua cattura, con altri nove comunisti patrioti, tra i quali Paolo Davoli e con essi condotto lungo la statale 63 per Gualtieri. Sul luogo del supplizio finale i dieci, già sfiniti dalle bestiali sevizie, vennero prima colpiti selvaggiamente con i calci dei mitragliatori ed infine uccisi con una raffica.
Ferrari Giuseppe
Giuseppe Ferrari nacque il 23 maggio 1919 a Bebbio di Carpineti, in provincia di Reggio Emilia. Nel marzo 1940 venne arruolato nel sesto Reggimento Alpini, Brigata Verona, terza Divisione Tridentina, e combatté sul fronte francese. Il 23 giugno dello stesso anno rimase seriamente ferito in combattimento, al braccio e alla gamba sinistri. Per queste ferite fece un lungo periodo di ospedale e poi di convalescenza. Dopo un anno e sette giorni, l’1 luglio 1941, rientrò nei ranghi ma, per i postumi delle ferite, venne assegnato ad altri servizi, prima nel Distaccamento Sanguinetto, a Caprino Veronese, poi a Roma. Fu congedato definitivamente il 25 marzo 1942.
Già in contatto con ambienti antifascisti nella provincia di Reggio, entrò nella Resistenza armata in provincia di Modena, con la Brigata Bigi, il 27 maggio 1944. Con il nome di battaglia Achiille, restç in forza a questa formazione partigiana, attiva sull’appennino modenese e reggiano, fino al 30 aprile 1945. Dal 15 giugno all’8 settembre 1944, con il grado di tenente, comandò una compagnia di oltre cento uomini ai suoi ordini. In luglio, durante una grande battaglia contro ingenti forze naziste e fasciste nei dintorni del castello di Toano, venne colpito alla gamba sinistra da un proiettile di rimbalzo. Con l’aiuto di un compagno, riuscì a raggiungere la località Cà dei Lupi e a nascondersi in un cascinale abitato da una coppia. Qui ricevette le prime cure, grazie all’intervento di un infermiere che gli estrasse la pallottola servendosi di un coltello passato sul fuoco e così sterilizzato. Dopo una decina di giorni, si spostò in casa di parenti a Bebbio. Poiché camminava a fatica, il comando partigiano gli assegnò un cavallo per agevolare i suoi spostamenti e consentirgli di riprendere l’attività.
Il 15 agosto, in località Monte Modino di Frassinoro, provincia di Modena, durante la notte venne sorpreso insieme ad altri partigiani da forze nazifasciste. Mentre molti compagni furono catturati (saranno poi fucilati), riuscì a rompere l’accerchiamento allontanandosi a cavallo. Ma il cavallo rimase colpito durante la fuga, stramazzando a terra e lui rotolò in mezzo ai cespugli, ove rimase immobile e nascosto dalle 5 del mattino fino alle 6 di sera. I soldati gli passarono a pochi metri, non lo videro, o forse lo diedero per morto. Se la cavò anche questa volta. Il comando partigiano gli assegnò un altro cavallo e lui continuò a combattere. Dal 9 settembre al 13 novembre fu sottotenente e guidò 35 uomini; dal 14 novembre fino alla Liberazione, promosso capitano, comandò un battaglione di oltre duecento unità. Il 25 aprile 1945 lo trascorse a Sassuolo, ove il suo battaglione si occupava in quei giorni dello smistamento dei prigionieri.
Giuseppe Ferrari è stato insignito di due croci di guerra e di un distintivo d’onore. Attualmente, vive a Bagnolo in Piano, in via Gonzaga 11.
Ferrari Luigi “Pellegrini” (1919-2002)
Luigi Ferrari è stato indubbiamente uno degli esponenti di maggior rilievo della Resistenza reggiana. Nacque ad Albinea il 19 maggio 1919 in una famiglia operaia di forte ispirazione socialista, dove il padre Giuseppe, convinto sostenitore di Prampolini, verrà più volte perseguitato dai fascisti. Tuttavia frequentando il collegio cittadino di San Rocco, allievo di Don Dino Torreggiani, si consoliderà in lui una più spiccata fede cattolica.
Successivamente, sbandato dagli avvenimenti bellici, dopo l’8 settembre 1943 accrescerà le sue convinzioni religiose e politiche entrando nella parrocchia di San Pellegrino dove l’incontro che qui farà con don Angelo Cocconcelli, giovane parroco di quella parrocchia, risulterà decisivo per la sua definitiva maturazione. Don Angelo fu un prete coraggioso, provato dalle tante esperienze vissute in Germania come assistente agli operai italiani sfruttati dai nazisti, tanto da renderlo un convinto antifascista. Anni dopo, Pellegrini scriverà così di lui:”Don Angelo era stato rimpatriato proprio perché sospettato di antinazismo e nella sua canonica , sotto la sua guida, si riunirono in quei giorni di incertezza, alcuni giovani che costruiranno successivamente il primo nucleo di attivi resistenti cattolici reggiani”. Ettore Barchi, Franco Serrini, Alberto Toniolo, Domenico Piani e lo stesso Luigi Ferrrari, ovviamente insieme ad Angelo Cocconcelli, nella parrocchia di San Pellegrino, formeranno una fitta rete di antifascisti che coinvolgerà tanti altri giovani cattolici ed anche altre canoniche della città e della provincia. Nel frattempo grazie ad Hitler che lo mette in salvo, Mussolini costituisce il governo fantoccio di Salò ed iniziano i bandi di richiamo alle armi nella nuova decrepita Repubblica Sociale Italiana, giorni di prove durissime e di minacce di morte per coloro che sceglievano coraggiosamente di non presentarsi.
Il gruppo dei cattolici reggiani guidati da personaggi di primissimo piano come Pasquale Marconi ed i fratelli Giuseppe ed Ermanno Dossetti, inizieranno a tessere una importantissima rete di protezione e di aiuto per questi renitenti alla leva, per i prigionieri, per gli sbandati dell’8 settembre, elaborando anche le linee guida per convincere quanti più giovani possibili a non collaborare ed a sabotare il fascismo servo dei nazisti. Dopo la nascita del Comitato di Liberazione Nazionale provinciale il 28 settembre 1943, proprio nella canonica di San Francesco, Luigi Ferrari entrerà a far parte del Comando Piazza, di cui divenne successivamente Capo di Stato maggiore, rivestendo un ruolo centrale nel collegamento con le formazioni partigiane operanti sull’Appennino reggiano. Collaborò sempre assiduamente con il generale Mario Riveda e costanti furono i suoi rapporti con Adriano Oliva, con Gino Prandi, con Gismondo Veroni, con Carlo Calvi e Angelo Zanti. Proprio per questa fittissima attività clandestina, quest’ultimo verrà arrestato il 28 novembre 1944 in una casa isolata di Canali dove si era rifugiato e soltanto due giorni dopo, stessa sorte toccherà a Ferrari e ad Oliva.
Il 2 dicembre furono infine catturati Prandi ed il conte Calvi. Prima del trasferimento al carcere di San Tommaso, tutti quanti subirono la drammatica permanenza ai Servi ed a Villa Cucchi, dove Luigi verrà selvaggiamente pestato e torturato, al punto tale di ridurlo irriconoscibile agli occhi della madre, che si era prodigata per la liberazione, e dell’altra sua giovanissima figlia Lazzarina, condotta lì anch’essa per un interrogatorio.
Per loro (ad eccezione di Oliva assolto per insufficienza di prove) il “tribunale militare di guerra straordinario di Reggio Emilia”, presieduto dal tenente colonnello Arturo Santarelli nella seduta dell’8 gennaio 1945, pronuncerà la condanna a morte mediante fucilazione alla schiena. Nonostante gli interessamenti del vescovo Brettoni e del colonnello tedesco Dollmann, soltanto la ferma presa di posizione del C.L.N. reggiano consentirà la commutazione della pena capitale per i condannati, attraverso una lettera al comando tedesco con la quale si notificava che “gli ufficiali ed i soldati tedeschi subiranno la medesima sorte che dagli organi fascisti verrà riservata ai prigionieri in loro mani…”.
Ad eccezione di Angelo Zanti, fucilato all’alba del 13 gennaio 1945 nel cortile della Caserma Zucchi, Luigi Ferrari e gli altri condannati verranno in un primo momento trasferiti e trattenuti nel carcere di San Francesco a Parma fino al 20 aprile e definitivamente liberati a Verona cinque giorni dopo. Finalmente libero, particolarmente toccante fu l’incontro con la madre Giuseppina, alla quale Luigi rivelò che quel ragazzo sanguinante che non riuscì a riconoscere al carcere dei Servi e che credette morto, era proprio lui.
Fioroni Romolo “Franco” ( 1929 -2010)
“Indubbiamente il periodo nella Resistenza mi ha formato come uomo, aprendomi ad idee che mai avrei immaginato di poter condividere”. E’ forse questo il pensiero che meglio sintetizza umanamente la figura di Romolo Fioroni, partigiano ad appena 16 anni, per il quale la Resistenza è stata certamente una ragione di vita. La sua adesione alla lotta partigiana avvenne grazie al fratello Domenico “Nino”, di quattro anni più vecchio, che già era entrato in contatto con il Comandante “Carlo”, Don Domenico Orlandini. Tuttavia fu soprattutto la fucilazione di Pasquino Borghi, il 30 gennaio 1944 e la conseguente lettera del Vescovo Edoardo Brettoni ai preti della Diocesi, con la quale condannava la fucilazione del prete partigiano, a dare a Romolo ed al fratello la convinzione della loro scelta, sulla quale pesò anche la morte del padre, caduto sul fronte albanese e conseguentemente il mutamento di pensiero della madre, che vide nel fascismo la causa delle disgrazie famigliari e di tutto il Paese. “Franco”, questo il suo nome di copertura, nel giugno 1944 entra nell’Intendenza della 26° Brigata Garibaldi, successivamente al grande rastrellamento nazifascista a Villa Minozzo e Toano, partecipa alla riorganizzazione del movimento, dando il suo contributo nella costituzione della 284° Brigata “Fiamme Verdi”, nella quale rivestirà il ruolo di Commissario Intendente fino alla Liberazione. I mesi trascorsi nella Resistenza, segnarono per “Franco”, così come per tutti i suoi compagni, un periodo di grande crescita umana e politica: tanti ragazzi divennero uomini prematuramente, ma ben preparati ad affrontare il futuro. Quella di Romolo Fioroni, come del resto quella di tutta la straordinaria generazione che scelse di non sottomettersi al fascismo, rappresenta una autentica lezione di libertà e l’esperienza acquisita in quei mesi tremendi ed esaltanti allo stesso tempo, rappresentarono per Romolo lo stimolo a perseguire quelle idee anche nel corso della sua vita politica. Con la Resistenza aveva scoperto quell’inscindibilità della libertà dalla pace e la lotta che unì un intero popolo per la sua liberazione, accomunando uomini e donne, giovani e meno giovani, individui di diversa estrazione politica, sociale e religiosa, che divenne la Lotta di Liberazione di tutti i popoli dalla follia degenerante del fascismo.
Fontanesi Sergio “Mauser” (1921-1945)
Nato a Massenzatico nel 1921 in una famiglia antifascista di convinte idee socialiste prima e comuniste poi, a lungo perseguitata dal fascismo; tanto che lo zio Ugo Fontanesi, condannato insieme al fratello Venanzio, morì al confino in seguito al duro regime al quale era stato sottoposto.
Operaio alle Officine Reggiane e richiamato per il servizio di leva, Sergio divenne aviere scelto motorista, ma dopo l’8 settembre, sbandato come la maggior parte dei militari italiani, riuscì a ritornare a Massenzatico e senza farsi travolgere dagli avvenimenti, prese immediatamente contatto con i primi nuclei resistenti.
Nell’organigramma del Comando Centrale Provinciale S.A.P. rivestì il ruolo di Capo di Stato Maggiore fino alla costituzione delle prime brigate nel settembre del 1944 e successivamente diverrà Comandante del 3° Battaglione della 77^ Brigata S.A.P.”Fratelli Manfredi”.
Comandò e partecipò a numerose azioni contro i nazifascisti, a dimostrazione dello straordinario spirito che animò sempre quella feconda stagione di donne e di uomini che presero parte alla Resistenza. Appresa la notizia che a Gazzata era giunto dalla montagna un carico di armi, destinato alle formazioni della pianura e giudicando che sarebbero state di grande aiuto in quel momento di emergenza, il 15 aprile 1945 il Comandante “Mauser” partì subito in motocicletta per convogliarle sul posto, accompagnato dal sappista Giacomo Pratissoli “Aldo”.
Sul fare del pomeriggio, nel frattempo, a Fosdondo di Correggio si accese una delle più cruente battaglie (come quella di Fabbrico del 27 febbraio ’45) combattute nella pianura reggiana.
Il Comando inviò all’istante una staffetta a Gazzata per bloccare il carico delle armi, ma queste erano già in viaggio trasportate su di un camion, con alla testa la moto di Mauser e del compagno Aldo. Proprio nei pressi di Fosdondo, Fontanesi ed il suo gruppo si scontrarono improvvisamente con una colonna di fascisti appostati lungo la strada, per consentire ai suoi compagni di allontanarsi con il prezioso carico, tenne a bada il nemico, appoggiato dai sappisti di Fosdondo, finchè venne colpito a morte abbracciato alla sua arma e con lui Giacomo Pratissoli, Paride Carminati, Luciano Tondelli e Angiolino Morselli.
Un simile eroico gesto è valso al Comandante Mauser il conferimento della Medaglia d’Argento alla memoria.
Le tanto contese armi vennero alla fine condotte in luogo sicuro, ma il durissimo fatto d’arme di Fosdondo si concluse con la morte di 5 partigiani, 2 civili ed altri 2 partigiani feriti. Le perdite fasciste, ben più numerose, non furono mai accertate.
Il corpo del povero Mauser , trasportato nottetempo dai compagni di lotta a Massenzatico, venne temporaneamente sepolto dal padre in un rifugio sotterraneo nei campi dietro casa, per essere riesumato il 3 maggio 1945, giorno della consegna delle armi e smobilitazione delle formazioni partigiane.
Fornaciari Luciano “Slim” (1921 – 1944)
Lo studente reggiano Luciano Fornaciari, capo servizio di Brigata, cadde nelle mani dei tedeschi il 31 luglio 1944, durante le manovre di spostamento di alcuni distaccamenti al Passo della Cisa, nel tentativo di precedere il nemico. Si offrì volontariamente di portare in sella ad un mulo il mortaio che non voleva abbandonare.
Giunto sul posto fu catturato dai tedeschi, poi condotto a Febbio e lì immediatamente fucilato. Non soddisfatti, i suoi aguzzini lo impiccarono a testa in giù nel centro del paese, lasciandolo esposto come avvertimento per la popolazione. Anche il parroco di Febbio, amico dei partigiani, dovette nascondersi per non subire la rappresaglia nazista. Dopo qualche giorno, gli abitanti del paese durante la notte, lo tolsero dalla pianta dov’era stato impiccato e lo seppellirono in fretta sotto ad un lieve strato di terra. Furono Aldo Salvarani e Giuseppe Carretti, avvertiti dell’accaduto dalla sorella di Cipro, a dare una degna sepoltura al povero Slim. Toccante la testimonianza di Aldo, che ricorderà quell’azione temeraria compiuta insieme a Carretti, per onorare il giovane amico : ”una sera, cercando di non farci vedere dai tedeschi poco lontani, attraversammo la Val d’Asta e raggiungemmo Febbio. Con l’aiuto degli abitanti lo disseppellimmo, scavammo prima con le palette e poi con le mani. Affiorò il suo viso tumefatto ed irriconoscibile, lo pulii dalla terra piano con le mani, ma mi restavano sempre appiccicati brandelli di pelle e dei capelli. Poi lo adagiammo nella cassa e lo portammo nella chiesa poco distante. Ma io ebbi bisogno che Carretti mi guidasse”.
Per il suo eroico comportamento, Luciano Fornaciari verrà decorato con la Medaglia d’Argento al Valor Militare alla memoria.